La politica e il commercialista, un rapporto spigoloso
La rappresentanza politica della categoria non è alta. Ma le competenze dei commercialisti sono indispensabili per il buon funzionamento dello Stato.
Nel giorno dell'avvio della 19esima legislatura nazionale e con la contemporanea proclamazione in corte di Appello del presidente della Regione, Renato Schifani, è necessario porsi alcune domande sul rapporto tra i Dottori Commercialisti / Esperti contabili e la politica? Sulla questione pesa ancora un vecchio pregiudizio. Noi commercialisti saremmo consulenti dell’impresa. E nell’impresa si pensa a produrre reddito, “non si fa politica”. E quindi? Nessun rapporto? Gli ultimi appuntamenti elettorali sembrano confermare questa tesi. A leggere i curricula degli eletti al consiglio comunale di Palermo non risulta alcun collega tra gli eletti. Inoltre il nostro territorio siciliano non ha eletto neanche un Parlamentare e solo due colleghi dovrebbero risultare eletti all’Assemblea Regionale Siciliana. Un problema che non è solo professionale, ma anche di rappresentanza.
Un pregiudizio, due errori
Questo vecchio pregiudizio si porta però dietro un doppio errore. Intanto non è vero che l’attività del Commercialista sia limitata alla forma aziendale dell’impresa. L’apertura agli enti pubblici e agli enti del terzo settore è ormai una realtà consolidata. Il commercialista è il consulente economico d’azienda. Di ogni tipo d’azienda. E poi l’impresa stessa è immersa in un contesto istituzionale dove, come dice l’antico adagio, “se tu non vuoi occuparti di politica, sarà la politica ad occuparsi di te”. Forse la presenza dello Stato in economia è addirittura così forte oggi che la politica servirebbe anche soltanto per allentare un po’ questa morsa nella quale rischiano di essere stritolate migliaia di piccole e medie imprese; imprese che sono il nostro principale bacino d’utenza. In ogni caso, pensare che ci si possa occupare di economia senza passare dalla politica appare soltanto un mito.
Le competenze
La politica ha bisogno della competenza dei Commercialisti e i Commercialisti hanno bisogno della politica per difendere una professione utile ed indispensabile al Paese.
Perché mai, in materia di consulenza d’azienda, dovrebbe esistere una professione regolamentata e questa non potrebbe essere piuttosto affidata a generiche aziende di servizi? Le professioni regolate (il medico, l’ingegnere, l’avvocato, e, appunto il commercialista, tra gli altri) esistono come forme di organizzazioni economiche tenute al riparo dalla forma-impresa, per la correlazione ineliminabile tra la prestazione e la persona che la svolga, di cui si vigila sulla formazione e, soprattutto, perché è in gioco un interesse pubblico in tal senso. Il professionista “regolato”, è soggetto ad un percorso formativo lungo e difficile stabilito per legge: innanzitutto alla laurea, a un’abilitazione, a una formazione continua, alla soggezione a specifiche norme che attengono alla disciplina ovvero a forme di vigilanza proprie della professione e a un codice deontologico. Perché? Perché, appunto è in gioco l’interesse pubblico. Non può curare chi non è medico senza pregiudicare la salute pubblica, così come, in teoria, i servizi contabili e fiscali, e tutte le consulenze aziendali a questi connesse, non possono essere affidate ad avventurieri e praticoni senza grave pregiudizio per l’economia pubblica. Tuttavia, rispetto alle garanzie date dall’appartenenza all’Ordine, è in atto una deriva legislativa che affianca “sub-ordini”, “albi”, “registri”, la cui moltiplicazione cancerogena, costituisce una reale minaccia per l’unità e stabilità della professione. Immaginate cosa farebbe la professione legale se ci fossero tanti albi speciali per i diversi tipi di tutela legale. Anche la prospettiva della “laurea abilitante”, se non si mettono alcuni paletti, rischia di diventare un ulteriore elemento di deriva legislativa.
La tutela dell’interesse pubblico dei bilanci
Il Dottore Commercialista oggi, quindi, si trova a tutelare un interesse pubblico di garanzia dell’affidabilità di “conti e bilanci” (la Ragioneria, cuore storico della nostra professione), ma – a sua volta – ad essere poco tutelato e rappresentato nell’ordinamento. La tutela della nostra professione non può che essere legislativa ed amministrativa, cioè in qualche modo affidata alla politica. Ma tutto ciò, in massima parte, sembra attenere fin qui ad un ruolo nazionale della professione. Esiste una possibilità di intervento politico specifico degli ordini locali? E in particolare cosa può dire o fare l’Ordine dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili di Palermo? Prima di rispondere a questa domanda per certi versi esistenziale, va sgombrato il campo da un altro possibile equivoco: l’ordine è un ente pubblico non economico, e non può, né potrà mai, avere un orientamento di favore specifico per un partito o uno schieramento di partiti. Può, invece, e deve incalzare tutte le forze politiche a esprimersi su specifici temi, e su questi specifici temi, può esprimere a sua volta il proprio sostegno o la propria censura. Per il resto i commercialisti non possono essere “governativi” o “oppositori” per definizione. Questo almeno per quanto riguarda l’impegno politico istituzionale degli ordini, di cui Palermo con il suo presidente Nicolò La Barbera e con noi consiglieri si è già fatta capofila tra gli ordini dell’Isola. Diverso, e benvenuto, è invece, l’impegno diretto e individuale dei singoli colleghi che intendano impegnarsi in prima persona, senza impegnare in tal senso l’istituzione. Siamo in genere molto restii a trascurare i nostri studi per un coinvolgimento più diretto. Eppure qualche sacrificio in tal senso potrebbe essere utile a portare il nostro linguaggio nelle istituzioni per difendere non solo i nostri interessi, ma anche e soprattutto quelli delle aziende, dei contribuenti e anche quelli dello Stato al quale garantiamo come intermediari corpose entrate tributarie.
La totalità delle norme che regolano la vita delle professioni è stata sinora di competenza statale, ma ciò non significa che Palermo, da area metropolitana tra le “capitali” italiane, non possa dare in tal senso il proprio contributo di idee a livello di legislazione dello Stato. Ricordiamo, ancora, che la riforma costituzionale del 2001 ha, almeno sulla carta, trasmesso alle Regioni, a tutte, anche a quelle non a statuto speciale come la Sicilia, competenza in materia di ordinamenti professionali. Abbiamo studiato le possibilità di intervento in tal senso? Sempre rispettando le norme europee sulla concorrenza, potremmo quanto meno suggerire all’Assemblea Regionale alcune mirate integrazioni della norma nazionale che semplifichino la vita delle professioni e delle imprese. Ma il tema della collaborazione tra professione e legislatore è molto, molto più generale degli interventi relativi al nostro settore. Il Dottore Commercialista è depositario di una cultura che può essere fattore di sviluppo dell’economia. L’attuale condizione di crisi finanziaria generale non può essere motivo di scoramento, ma – al contrario – ci deve spingere ad un ruolo più attivo per invertire la rotta. Diceva il professore Colletti, indimenticato dottore commercialista oltre che studioso, che l’aziendalista è il “medico dell’azienda”. E il parere del medico può essere determinante ogniqualvolta il decisore pubblico, sia come legislatore regionale, sia come esecutore, regionale o locale, investe il diritto dell’economia. E se, nel corpo legislativo, ci sarà una nostra presenza qualificata in prima persona, ciò potrà avvenire in maniera ancora più rapida ed efficace.